venerdì 15 giugno 2012

             Questo articolo è stato pubblicato, sulla rivista mensile
                             “Caravan e Camper” del Gennaio 2004

                                     Algeria, primavera 2003

La passione per viaggi ci accompagna da una vita. Da oltre vent'anni, io e mia moglie arriviamo con la nostra "casa viaggiante" in luoghi remoti del Nord Africa o del Medio Oriente. Come le steppe del Turkmenistan o le calde distese del Maroc­co, dalla mitica Samarkanda fino ai templi egizi, dai laghi salati di Mandara in Libia, agli splendidi palazzi Safavidi dell'Iran. Sono viaggi emozionan­ti, fuori dai normali itinerari turistici, a contatto con la gente e le realtà locali.
Ma può succedere che il nostro camper non attrezzato per il fuoristrada, non riesca ad arrivare in tutti i luo­ghi. Come nel caso del massiccio montuoso dell'Assekrem, in pieno Sahara algerino, dove un eremo a tremila metri è conquistabile a sten­to anche con una jeep. Ma noi non ci siamo arresi: abbiamo deciso di raggiungere questa meta comunque. Per farlo ci siamo avvicinati il più possibile all'Assekrem con l'AstroRonak, così si chiama il nostro camper; poi, con una guida locale, il suo fuoristrada e la nostra tenda, abbia­mo risolto il problema.
E quello che segue, è il racconto di questo nostro viaggio in Algeria, di cui vogliamo narrare i momenti salienti e più emozionanti: quelli sull'altopiano dell'Assekrem, appunto, e tra le dune dell'Hoggar Tassili, dove il camper non poteva arrivare, ma un quattro per quattro ce l'ha fatta.

    Il nostro AstroRonak

    Verso l'Africa
            L'avventura inizia a Trapani a bordo del camper, dove ci imbarchiamo alla volta di Tunisi. La traversata è noiosa, si viaggia di giorno, siamo in feb­braio e sul ponte della nave è ancora freddo; adagiati su una poltrona controlliamo ancora una volta la cartina dell'Algeria e la strada da per­correre fino a Tamanrasset, che sarà la nostra base per gli spostamenti. Al porto di La Goulette, a Tunisi, la dogana è abbastanza veloce, scarsi i controlli e le formalità, e il tutto si risolve entro un'ora; oramai è buio e decidiamo di pernottare nell'ampio parcheggio del porto. L'indomani, ci dirigiamo verso sud senza grandi fermate, conosciamo già la Tunisia e non possiamo perdere tempo, quindi, lasciate La Goulette e Tunisi, attra­versiamo le città di Kairouan, Gafsa e Tozeur.
            Dopo l'oasi di Nefta, pas­siamo la frontiera algerina a Taleb Larbi: è, secondo noi, il punto d'in­gresso in Algeria più indicato per chi si sposta su ruote, poiché si arriva già nel cuore del Sahara, dove gli abitanti sono tuareg, figli del deserto lontani dalle lotte politiche. Infatti, anche se attualmente l'Algeria è una nazione abbastanza tranquilla, a volte al nord, specialmente nelle vici­nanze di Algeri, la mentalità integralista può creare qualche problema. Anche qui le pratiche doganali sono abbastanza veloci, la polizia di fron­tiera è molto gentile e disponibile e sono poche le formalità da esple­tare: un semplice modulo da riempire con la dichiarazione della valuta, ma senza i controlli fiscali di qualche anno fa; per il camper c'è da stipu­lare l'assicurazione, in quanto l'Algeria non riconosce la carta verde.
                                                                  In Algeria
                Dopo 80 chilometri, entriamo nell'oasi di El Oued e ne approfittiamo per cambiare la valuta e fare carburante, visitando i dintorni, costellati di piccoli villaggi immersi tra palme. Proseguiamo, poi, per Ouargla e lun­go la strada venditori poco più che ragazzi ci offrono rose del deserto, mostrando al guinzaglio grosse lucertole e cuccioli di fennec, le piccoli volpi dalle gradi orecchie.

    Un cucciolo di fennec

                Ouargla è una città moderna, con una nuovissima università e ragazze vestite alla moda. Il tempo stringe e proseguiamo sulla strada per El Minea (sulle mappe troverete sicuramente il vecchio nome di El Golea), piuttosto piatta e senza interesse, ma al tramonto, mentre guidiamo, dune color  ocra ci affiancano ai lati della strada: la sabbia è abbastanza dura, il posto è suggestivo, decidiamo di fermarci per la notte ai piedi di una collina dorata. Da El Minea termina la libera circolazione: infatti, per scendere a sud, bisogna attendere il formarsi di un convoglio scortato da militari. Mostriamo il nostro disappunto quando veniamo a conoscenza che le scorte, benché presenti per nostra sicurezza, vengono effettuate solo in direzione sud e al ritorno non ci saranno.
                Il buffo convoglio di cui fac­ciamo parte è in realtà formato solo da jeep militari e da un solo camper, … il nostro.
                Il deserto, da piatto, inizia a mostrare alti plateau, impressionanti falesie, rapidi tornanti e vertiginose discese. Arrivati a In Salah. dove rimaniamo fermi un giorno per mancanza di convogli, proseguiamo alla volta di Tamanrasset. Questo è il tratto più lungo e più duro di tutta la traver­sata, la strada praticamente è inesistente e nessun rifacimento è mai sta­to fatto. Spesso si deve lasciare il tracciato per una pista laterale, o scendere dal camper per saggiare durez­za della sabbia e profondità delle buche. Prima che faccia buio cerchiamo il luogo per fare cam­po, e per farlo bisogna uscire dalla "strada": formiamo una massicciata sulla sabbia trop­po soffice, il camper transita e ci addor­mentiamo sotto le stelle.

    La "strada"

            Verso Arak la rete stradale migliora e, il 27 febbraio, attraversiamo il Tropico del Cancro. Siamo alle porte di Tamanrasset, a un passo dalla nostra ambita meta. Qui faremo base per le escursioni sull'Assekrem e nel Hoggar Tassili, lasciando il camper in cam­peggio e affidandoci a una guida tuareg con il suo fuoristrada.

                                                         L'eremo sull'Assekrem
Ci fermiamo al Camping “Caravanserail”, sulla strada che conduce all'Hadriane, un monte vicinissimo alla città. Prima tappa, il massiccio mon­tuoso dell’Atakor, per salire poi all'Assekrem, sul cui altopiano sorge un eremo: 80 chilometri di pista da percorrere con un vecchio Toyota. Ci accompagnano l'autista Molud e la guida Abdu, che è anche il cuoco del­la spedizione, entrambi tuareg.
Sull'Assekrem farà molto freddo e saran­no fondamentali i sacchi a pelo e un buon equipaggiamento, oltre, natu­ralmente, a una giusta scorta di provviste.


    Il monte Yaran

               Lasciato molto presto l'asfal­to, percorriamo una pista “tole ondulèe” che ci riserva qualche scos­sone. Il primo monte che incontriamo è il più fotografato e riprodotto sulle cartoline illustrate, lo Yaran; più avanti, una guglia di nome Adaoda. Si tratta di altissime conformazioni granitiche a canna d'organo che nascono dalla sabbia. All'orizzonte si staglia la cima frastagliata dell'Akar Akar, simile a un antico castello merlato.
A un bivio, due archi danno il benvenuto alla guelta di Afilale, una riser­va d'acqua naturale in mezzo allo sconfinato deserto, alimentata da pic­cole sorgenti. Fino all'anno scorso, questa era zona militare e non ora possibile transitarvi, lo testimoniano alcune piccole caserme in mura­tura, senza tetto e ormai in disfacimento. Visitiamo la guelta, un ruscel­lo con cascatelle e pozze d'acqua trasparente, ed è già ora di pranzo: Abdu ha preparato la “salade tuareg”, con rape rosse, uova e cipolle, poi berremo l’immancabile tè.

    La guelta di Afilale

                 Di nuovo in marcia, mentre vediamo le cime del Dsueg, la pista si fa più ripida e si presenta in pessime condizioni. La strada alternativa, Hirhafok, ci informano che è ancora peggio. Ci stiamo dirigendo verso la meta finale della nostra prima escursione, il plateau dell’Assekrem, il monte su cui sorge l’eremo di Charles De Foucauld. Ma prima ci fermiamo sotto un picco di nome Suenan, dove facciamo campo e montiamo le tende. 

Il nostro campo, sotto il monte Suenan

         Riprendiamo a salire tra i coni frastagliati di antichi vulcani, fino a che la pista finisce e ci obbliga a lasciare l'auto in un parcheggio. A piedi prendiamo il sentiero: il passaggio è molto ripido, l'altitudine e la fatica tolgono il respiro, ma i colori di un tardo pomeriggio invernale ci ripagano.
Sull'altopiano ci sono casette a cubo costruite con la roccia del posto, dove vivono ancora due frati, padre Edoardo e padre Ari. Al di sopra di tutte le altre c'è l'eremo, una piccola costruzione in pietra nera. Al suo interno, dattiloscritti attaccati al muro e oggetti personali raccontano la storia di padre Charles, un sacerdote impegnato nell'assistenza alle popolazioni locali, ucciso nel 1916 a Tamanrasset dalla pallottola di un cecchino.

    Sul massiccio dell'Assekrem a 3000 mt s.l.m.


    Il tramonto sull'Assekrem

                La visita è toccante, più di quanto pensassimo, ma è tempo di fare ritorno al parcheggio, percorrendo a piedi una strada militare, quasi tutta franata e molto lunga.   Risaliti sul fuoristrada, lungo una pista per nulla agevole, ci dirigiamo al campo base di Assekrem, dove passeremo la notte. Al risveglio ci mettiamo in marcia per tornare Tamanrasset. Ora ci aspettano le sinuose dune del deserto dell'Hoggar Tassili, la nostra seconda meta.
Passata la notte nel comodo letto del camper, al risveglio siamo di nuovo sul Toyota: puntiamo a sud di Tamanrasset per circa 180 chilometri, e la strada, da asfaltata, si fa subito  sabbiosa.
                                                       Nel deserto dell'Hoggar
            Lungo il tragitto incontriamo una folta carovana di dromedari; il tempi di qualche scatto fotografico e si prosegue tra gli ouadi, antichi letti il fiumi in secca, con alberi di tamerici e acacie. Il sole è tiepido e soffia una leggera brezza. E tempo di raccogliere la legna per il fuoco dei bivacchi e Abdu ci spiega che solo il legno dell'acacia è buono per fare la brace, mentre la tamerice emette fumi che fanno venire la bronchite. Poi si riparte, la pista è tornata sassosa, Molud è bravo alla guida, noi non siamo abituati alle rigide sollecitazioni del fuoristrada. Va bene così, doma­ni andrà meglio, ci avremo fatto il callo.
            Il cielo è cambiato, speriamo che questa escursione non sia disturbata da tempeste di sabbia. In pieno deserto incontriamo un gruppo di caprette nere con il loro guardiano, Molud e Abdu si fermano per salutarlo, gli regalano tabacco, l'uomo si avvicina alla macchina e ci stringiamo la mano. C'è un isolamento asso­luto, percorriamo molti chilometri e verso sera ci fermiamo in una val­le a El Ghessor, vicino a una grande caverna circondata da blocchi di basalto simili a canne d'organo. Piantiamo la tenda e mangiamo zuppa di lenticchie e pane tuareg, cotto da Abdu sulla sabbia infuocata.
            È marzo, oggi abbiamo percorso ben 190 chilometri, tutti su piste impegnative. Le guide ci spiegano il percorso dei prossimi giorni tracciando sulla sab­bia un'elementare mappa, poi,tutti a dormire. AI risveglio, caricati i baga­gli, proseguiamo il viaggio: andiamo veloci su un lunghissimo tratto di pla­teau completamente piatto, sabbia gialla indurita dal vento. In lontananza, monti di varie altezze, forme e colori.
            Ci dirigiamo verso In Akachaker. Un luogo magico, dune altissime di varie forme, un colore giallo ocra caldissimo, la sabbia è grossa e spuntano alti monoliti di basalto nero di tutte le forme. Due di questi, in tempi lontani si sono ripiegati l'uno ver­so l'altro formando un bellissimo arco. Uno strano fenomeno del ven­to fa sì che le dune di sabbia non si accostino ai monoliti, ma li aggirino in un cerchio, lasciandone scoperta la base. Procediamo a fatica verso il bivacco, la strada da fare è tanta, tutta sulle dune: difficile procedere, i passi sono lenti, le scarpe affondano. Dopo pranzo si riparte, ricomin­cia il deserto piatto, percorriamo moltissimi chilometri velocemente, alla guida Molud è bravo, non ci insabbiamo mai neanche quando a vol­te la sabbia diventa soffice e più veloce si marcia, meno si sprofonda.

"incontro" di monoliti

            All'orizzonte di questo deserto uniforme, notiamo un piccolo monte a forma di panettone, è là che siamo diretti, ci sono antiche inci­sioni che raffigurano giraffe, segno tangibile che qualche migliaia di anni fa questa lan­da desolata era piena di fau­na e vegetazione. Dopo averle visitate, riprendiamo il cammino per la prossima meta, dove, nella valle di Tagrera, monteremo il campo per la notte. Qui, enor­mi funghi di pietra nascono dalle sabbie dorate; alcune, al loro inter­no hanno delle grotte simili a came­re naturali. Si è alzato il vento che muo­ve la sabbia intorno alla tenda e dura per tutta la notte.

                                         Verso la roccia dell'Elefante
Al mattino siamo sulla pista, il deserto torna a farsi piatto, intorno a noi per 360 gradi un unico orizzonte senza un minimo rilievo. Sfrecciamo sulla sabbia a oltre cento chilometri all'ora. Proseguiamo verso l'oued in Djeran, facciamo sosta per il pranzo sotto la roccia dell'Elefante, una scultura naturale che il vento ha modellato nella  forma e nella rugosità della pelle, un vero pachi­derma pietrificato.

    " l'elefante"

Ancora chilometri ed entria­mo in un grande ouadi, con tanti alberi, alcuni sec­chi e alcuni con timide fioriture. Il paesaggio cambia in continuazione, sabbia prima quasi bianca, poi rossa, rosa, infine gialla, pie­tre verdi e monti nerissimi: su questi ultimi una strana incisione, un graf­fito che raffigura una mezza mucca con testa di cicogna.
Si è alzato molto vento e abbiamo qualche problema nel montare la ten­da. Prima di cena ci mettiamo intorno al fuoco, Molud come al solito ci offre un buon tè e Abdu ci racconta la storia del popolo tuareg, deci­mato dai francesi colonialisti. L'indomani, fatti velocemente i bagagli, ci si rimette in moto: l'escursione sta per volgere al termine. Percorria­mo tutto il grande ouadi, l'Indeleg, buona parte della pista è brut­ta, molto sassosa, un continuo saliscendi, curve e polvere.
                             Nel Sahara l'acqua è per tutti
                 Lungo l'ouadi entriamo in piccoli villaggi, poche capanne abitate fatte di paglia e foglie di palma, vediamo donne vestite con i loro abiti multicolori, ma non vogliono essere fotografate. Un gruppo di ragazzi si offre di tirare su dal pozzo l'acqua per noi. Nel lasciare il villaggio, chiediamo se si deve dare qualcosa per averci dissetato e riempito le taniche: ci rispon­dono che, nel deserto, l'acqua è gratis per tutti.

Ci riforniamo d'acqua

                Ringraziamo e riprendiamo il viaggio. Quando ci fermiamo, siamo a Tamekrest: dicono che c'è una cascata da vedere, ma che è praticamente in secca. Sono soltanto 40 i chilometri che ci separano da Tamanrasset, c'è ancora luce e siamo stanchi. Così, pen­sando al nostro camper "abbandonato" in campeggio ormai da una settimana, decidiamo di finire il tour e tornare al Cam­ping Caravanserail da dove eravamo partiti, per varcare la soglia della nostra "villa viaggiante" e ritrovare le comodità. Tanto, nel Sahara, ritorneremo!
                                                                                    Anna Maria e Vittorio Fraleoni



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