domenica 8 luglio 2012

                                    Una visita a Djenné, in Mali
            Stamani ci siamo alzati presto, per questa sera abbiamo previsto di arrivare a Djenné, un’antica città del Mali.

Oltre novemila chilometri per arrivare a Djenné
            La giornata è bella ed assolata con una leggera brezza da nord. Stiamo attraversando un territorio pianeggiante, ci fanno da cornice piccoli villaggi in mattoni di fango ed i tetti di paglia; nelle campagne circostanti, le rigogliosissime palme si alternano con la maestà dei baobab, vere sculture viventi, i loro fusti superano i due metri di diametro. Il pensiero torna a qualche giorno indietro, quando attraversammo l’arrido territorio della Mauritania, un deserto piatto con una rarissima vegetazione spinosa. Qui in Mali la situazione è completamente differente, i campi coltivati ed i  pascoli si susseguono, il fiume Niger è una grande risorsa.


Una scultura vivente
            Sulle distese erbose si alternano, mandrie di mucche e grandi greggi di pecore, le coltivazioni e gli orti non mancano, lo testimoniano i tanti mercatini ai bordi strada che mostrano le loro mercanzie di frutta e verdura.
            Anche questa parte del percorso come in tutto il Paese, è rallentato dai tanti dossi prima e dopo ogni più piccolo villaggio, ci sono rallentatori a serie di quattro all’ingresso e all’uscita di ogni frazione abitativa. Gruppi di ragazzi di varie età con passo celere vanno verso la scuola, li accomuna l’unico quaderno tra le mani, il pensiero va ai nostri studenti con i loro zaini “affardellati”.
            Anche oggi la strada è stata pessima, ed il trasferimento va a rilento. Ci fermiamo presso una piccola comunità con la sua chiesetta cristiana e tante capanne intorno, molte sono dei granai, lo testimonia il fatto che i pavimenti sono sollevati dal terreno. Cerchiamo rapidamente di fare qualche foto, perché arrivano bambini e non solo a chiedere di tutto.


I granai
            Nel pomeriggio ad un bivio, lasciamo la strada statale, prendiamo una carreggiata a pagamento che ci porterà a Djenné. Il pedaggio ci dicono che serve a mantenere la grande moschea della città, patrimonio dell’UNESCO.
            La città di Djenné è ubicata nella parte alta un’area alluvionale tra il fiume Niger ed il suo affluente Bani, per arrivarci dobbiamo attendere il traghetto che al momento è sull’altra sponda. Il tratto d’acqua è brevissimo e non c’è alternativa. Il portello dell’imbarcazione si adagia sull’approdo, cioè l’arenile del fiume, ci sarà qualche problema per salire, la sabbia è morbida e le ruote affondano; Vittorio scende per sentire la consistenza del terreno tra i solchi lasciati dalle altre vetture. Con un po’ d’abbrivio, la difficoltà è superata, e ci imbarchiamo. La stessa difficoltà la troveremo allo sbarco.

Siamo quasi più grandi noi
            La città si presenta polverosa, strette viuzze dove il nostro camper ci passa appena. Più avanti per complicare la situazione troviamo un mercato che pullula di gente, lo dobbiamo oltrepassare, ci hanno indicato un campeggio che si trova poco più avanti. Con non poche difficoltà oltrepassiamo le bancarelle e, arriviamo in un altro vicolo dove dovrebbe esserci il nostro “campo”; qui le difficoltà diventano due, il vicolo è stretto ed il cancello del camping è basso. L’unica alternativa è una sistemazione fuori città
            Pochi chilometri fuori il centro abitato c’è un villaggio turistico, una parte è ancora in costruzione, c’è un area per campeggiare è senza luce e l’acqua è del pozzo, ma questo non è un problema. Quanto meno non è polveroso ed è tranquillo, per andare in città si serviremo dei taxi.

Il villaggio dove abbiamo fatto campo
            Il giorno seguente con il mezzo pubblico raggiungiamo il centro di Djenné, andiamo a visitare la sua antica moschea, una costruzione decisamente strabiliante, cinta da un alto muro che ne celano parzialmente la vista. Credo sia la più imponente costruzione in mattoni crudi del mondo, con le torri alte più di dieci metri. Purtroppo l’ingresso è vietato ai non musulmani, a meno che, per poterla visitare  non si accetti di essere “taglieggiati”. Conoscendo la semplicità degli interni di queste strutture, non accettiamo il ricatto. Ci accontentiamo di girarle intorno, saliamo sul tetto di una casa di fronte per vedere la vista d’insieme, da qui la possiamo ammirare nella sua interezza ed in piena luce. La sua struttura, il classico stile maliano, è riscontrabile in molte altre moschee, ma questa è imponente, il suo intonaco di fango e paglia comporta una continua manutenzione, per cui i pali che occorrono per le impalcature sono fissi.


La moschea dietro il mercato


La vista dall'alto
            Proseguiamo la visita nella piazza, visitiamo una deludente biblioteca, mentre il museo è chiuso. Poco più in là si trova la tomba di una giovane vergine sacrificata per la salvezza della città, chissà per quale tradizione tribale e barbara. Da queste parti la vita delle donne non deve essere mai stata facile, credo siano viste soltanto come macchine da riproduzione e da lavoro; proprio qui vicino è appena arrivato un grosso camion carico di merci, ed a scaricarlo … soltanto donne.


Lo scarico delle merci
            Il grande e multicolore mercato c’è il lunedì, oggi soltanto pochi banchi di frutta e verdura, acquistiamo un po’ di frutta, soprattutto mango, che a differenza da quelli caraibici, sono più piccoli ma decisamente più dolci e profumati. È ora di pranzo, ed è abbastanza caldo, ci fermiamo in un ristorante fresco e pulito per bere un po’ d’acqua, ne approfittiamo anche per mangiare.

Il mercato
            Nel pomeriggio riprendendo la strada per il camping, incontriamo una ragazza italiana, si chiama Silvia, è una volontaria che qui in Mali fa l’educatrice. Una delle tante ragazze o ragazzi italiani, che pur di lavorare accettano lavori impegnativi lontani da casa.
            Una volta a “casa” facciamo un po’ di relax sotto una tettoia, un leggero venticello ci ripaga del caldo di oggi. Il sole tramonta velocemente ed iniziano ad arrivare le zanzare, non avendo fatto la profilassi contro la malaria rientriamo nel camper. Controlliamo i file fotografici al computer, siamo soddisfatti, molte persone non gradiscono essere fotografate e molti scatti sono stati eseguiti con il teleobiettivo.

La tettoia del relax
            Il giorno seguente, visitiamo un piccolo villaggio a qualche chilometro da Djenné, anche qui tanta inevitabile polvere, il territorio durante l’anno subisce varie inondazioni da parte del Niger, e quando l’acqua si ritira lascia il suo limo che asciugando si trasforma in un sottile fesh fesh. Vicino le prime case, un persona anziana e due donne, ci avvicinano con un quadernetto con tanto di timbri, lui ci chiede una piccola somma, un contributo per entrare nel paese e per poter fotografare. In molti villaggi del Mali questa tassa è una consuetudine, dicono che serve per la comunità. Entriamo in un piccolo cortile, dalle persone che vi stazionano dovrebbe appartenere ad una grande famiglia, anziani, donne e bambini di ogni età.


Nel piccolo cortile

            Una delle due signore si è cambiata d’abito, indossando un vestito multicolore e grandi gioielli in argento; si fa fotografare poi al momento dei saluti ci chiede alcune monete. C’è stato un malinteso, i soldi per fotografare dati al “vecchietto” si sono volatilizzati insieme a lui, insomma tutti chiedono, sembra il film di Benigni e Troisi “quanti siete: due fiorini”.


Vestiti multicolori
            Il resto del villaggio è un dedalo di viuzze che a volte lasciano il posto a piccole piazze con altrettanti mercatini dove giovani ragazze portano la frutta appena colta, con qualche stratagemma riusciamo a fare dei buoni scatti per non suscitare il dissenso della gente.


Verso il mercato


Verdure appena colte
            Intorno a noi tantissimi bambini che ci seguono passo dopo passo, io scherzo con loro divertendosi a ballare con me.

Il ballo con i bambini

           La passeggiata continua vicino la riva del fiume, non sfuggono alle nostre fotocamere alcune signore intente a fare il bucato, molte eseguono questa faccenda domestica con il proprio bambino legato dietro la schiena, è il modo usuale per le donne maliane per “trasportare” i figli.

Vita sul fiume
            Rientriamo a Djenné, attraversando la piazza principale vengo avvicinata da una donna sorridente, è di notevole statura, dietro le spalle l’immancabile bambino e sulla testa la sua mercanzia, dei piccoli souvenir. È simpaticissima, gli compro un braccialino e ci facciamo un foto insieme.


Dal suo fardello esce un piedino
            Il tanto camminare ed il gran caldo ci consiglia di tornare sul camper, Siamo appena agli inizi di febbraio, cosa sarà qui in estate?
            Nel frattempo un SMS della Farnesina ci avverte di lasciare immediatamente la regione, dal nord del Paese, i tuareg ribelli sono arrivati a Timbuktù e, che anche nella capitale Bamako ci sono dei disordini. In pratica noi siamo in mezzo e, la strada per tornare in Italia passa per Bamako. Siamo contrariati, ci manca la “ciliegina sulla torta” di questo viaggio: la falesia dei Dogon  che si trova nel circondario di Bandiagara, mancano poco meno di duecento chilometri. Noi non rinunciamo alla parte più importante del viaggio.
            Ma i Dogon, sono un altro racconto.
                                                                                              Anna Maria Rosati
                                                               -----ooooo-----


giovedì 5 luglio 2012

                      Una visita all'isola di Gheshm, IRAN

Dopo diversi viaggi in Iran, questa volta ci dirigiamo nel suo profondo sud
                                                        Il golfo Persico.
            Ci attrae l’isola di Gheshm, la più grande del golfo e, la meno sfruttata turisticamente, parliamo di turismo locale perché di occidentali … nemmeno l’ombra.
            L’isola si trova al largo di Bandar Abbas, crediamo che l’imbarco sia li. Giunti al porto ci dicono che i traghetti, ovvero le chiatte, che da e, per Gheshm, partono da Bandar-e Pol, una sessantina di chilometri a sud-ovest. Naturalmente gli imbarchi non sono reclamizzati, quindi si va avanti con le informazioni ricevute sul posto.

Itinerario sull'isola di Gheshm
            Giriamo il camper ed iniziamo a costeggiare il golfo. Ambo i lati della strada ci sono postazioni militari, dobbiamo tener conto che sull’altra sponda abbiamo la penisola arabica che dall’Iraq e Kuwait arriva fino allo Yemen. Durante il percorso veniamo fermati in un posto di blocco per controllo passaporti, i militari sono rapidi e gentili, poco dopo riprendiamo la via.
            A Bandar-e Pol arriviamo che è quasi buio e le imbarcazioni che fanno la spola hanno terminato il servizio. Ci imbarcheremo domani. Alcuni giovani guardiani, fanno qualche obiezione a farci parcheggiare per la notte dentro il recinto portuale, poi acconsentono. Nel frattempo è arrivato l’ultima chiatta, ha riportato sulla terra ferma alcuni lavoratori e quei rari turisti iraniani che hanno trascorso la giornata festiva sull’isola.
            Nonostante siamo nei primi giorni di aprile, la serata è calda ed umida, siamo a ventotto gradi, la vicinanza del tropico si fa sentire. Giusto il tempo per preparare la cena ed anche questa giornata è finita.
            La notte è trascorsa tra i latrati dei cani e i motori diesel dei camion frigoriferi, in uno spazio così ristretto è il meno che ci poteva capitare. Alle sette siamo in piedi, il sole è già alto con i suoi venticinque gradi. Nel piazzale c’è movimento, alle otto cominceranno a caricare i camion, sono diverse decine e tutti di grandi proporzioni. Siamo anche circondati da semplici autovetture, gli occupanti ci guardano con discreta curiosità. Vittorio è sceso dal camper per capire a che ora sarà il nostro turno d’imbarco, si muove spigliato tra la gente forte della sua maccheronica lingua persiana. Io mi sento un po’ in imbarazzo, con questo foulard mi sembro una befana.
            Il nostro turno è arrivato, il mezzo di navigazione è una simbiosi tra una grande chiatta e il rimorchiatore che gli è legato affianco. Sono le nove e venti quando stacchiamo dalla banchina. Siamo stretti tra le molte autovetture imbarcate, il mare è piatto e l’attraversata è tranquilla. Cerchiamo di telefonare, ma né il cellulare italiano né quello iraniano hanno campo, sono già diversi giorni che non c’è linea, forse in questo remoto lembo di terra persiana i ripetitori sono ancora scarsi.

Il nostro "traghetto" è arrivato
            Dopo meno di un’ora siamo arrivati sull’isola, la prima cosa che desideriamo vedere è la “valle delle stelle” che si trova a circa sessanta chilometri est dal punto di sbarco. La strada è buona, a pensarci bene in tutto l’Iran le sedi stradali sono discretamente buone ed il carburante è a buon mercato.
            Lungo il percorso incontriamo un cantiere navale in piena attività, grandi barche da pesca dai larghissimi scafi come tante arche di Noè. Ci fermiamo per visitarlo e magari prendere qualche foto ricordo. Il cantiere è vastissimo, sono in costruzione una ventina di pescherecci nelle varie fasi di lavorazione; dalla semplice ossatura fino ad arrivare a quelle quasi pronte per il varo.

Le ordinate perfettamente in asse

Ogni ordinata è pesantissima
            Siamo incuriositi, passeggiamo tra le imbarcazioni, tutto intorno un gran fervore, operai che trasportano le pesanti ordinate sapientemente lavorate dai maestri d’ascia, altri indaffarati con il fasciame e la calafatura, tutta la lavorazione è con metodo antico, come è stato insegnato loro per generazioni. Una visione insolita, sembra di essere sul set cinematografico di un film sui pirati. Le maestranze sono gentili, e noi fotografiamo il tutto con tranquillità.

Questa imbarcazione è pronta per il varo
            Sempre sulla strada principale ci troviamo davanti ad una collina di arenaria, all’esterno presenta diversi fori come finestre più o meno allineate. È il sito antico di  Kharbas, abitato già dal VI° secolo a.C. fermiamo il camper nell’ampio parcheggio, Io rimango qui mentre Vittorio sale per fare delle fotografie. Sta via circa un’ora, al ritorno mi ha detto che l’interno della collina è una serie di grandi ambienti, stanze e corridoi, il tutto diviso in diversi piani. Praticamente, gli antichi abitanti scavando, hanno realizzato il primo “palazzo”condominiale.

L'interno di questa collina è completamente scavata
            Riprendiamo la via verso “daré setaré”, la valle delle stelle il lingua persiana, come ce la scrive un gentile signore che ce ne indica la direzione. Poco traffico, soltanto motociclette con a bordo tre o quattro persone, a volte anche le donne con le mascherine caratteristiche del golfo Persico. Ai lati della strada, lunghe spianate di terra e sabbia percorse dall’incedere lento di piccole mandrie di dromedari, troppo lontani per essere fotografati.
            Un grande cartello arrugginito ci indica che siamo arrivati alla valle. Parcheggiamo la “casa” e ci incamminiamo verso l’ingresso. In senso contrario un gruppo di signore iraniane che ha terminato la visita, si fermano a parlare con noi, sono di Tehran, scambiamo qualche parola in inglese e prendiamo nota dei rispettivi indirizzi.

Le signore di Tehran

L'ingresso del sito
            La valle si presenta suggestiva, le sue conformazioni di arenaria formano pinnacoli, archi e monoliti di varia grandezza, il bianco candore del suo materiale contrasta col il blu intenso del cielo, più che delle stelle sembra di stare in una valle lunare. Siamo gli unici visitatori del sito, una fresca brezza marina ci ristora dalla calda giornata, stiamo godendo di questa meraviglia della natura. Gli scatti fotografici di Vittorio si alternano ai miei, questa sera avremo un bel daffare per riordinare i file fotografici.

Un particolare della valle
            Nel tornare verso Gheshm, il capoluogo dell’isola, ci fermiamo presso un villaggio di pescatori, niente di particolare, anche se lontani decine di migliaia di chilometri dal nostro Tirreno, lo scenario non cambia molto, barche attraccate e pescatori che riparano le reti. Dopo qualche foto riprendiamo il cammino.

Il porticciolo

Antichi mestieri
            La città ci accoglie con i suoi grandi viali, nuove palazzine e tantissime aiuole ben curate. Le strade sono percorse da grandi berline e molti “pick up”, si ha l’impressione che qui circoli molto denaro. Più avanti verso il centro sarà un vero problema parcheggiare, vicino l’ingresso del bazar stranamente c’è un po’ di spazio, guardando bene è vietato sostare; Vittorio scende dal camper, lo vedo parlottare con una guardia poco distante, li vedo sorridere e stringersi la mano, il gioco è fatto, possiamo parcheggiare.
            Il bazar, come tutti i mercati pullula di vita, è impressionante la quantità di merce esposta, è un via vai di gente, si fa fatica a camminare. Incontriamo tre giovani donne con le mascherine, differenti per foggia e colore da quelle di Minab, queste sono dorate e meno vistose, Vittorio cerca di fotografarle mentre io le distraggo, certo la luce è poca, vedremo poi il risultato.

Abbigliamento tipico del golfo Persico
            Siamo quasi alla fine del giorno, cerchiamo un luogo per pernottare, davanti all’hotel Darya c’è un comodo parcheggio; ceniamo nel ristorante dell’hotel e poi ci ritiriamo in casa.
            Al mattino seguente torniamo in albergo, Vittorio si collega ad internet per controllare la posta, la connessione è un po’ lenta, ci vuole un po’ di tempo; nel frattempo io guardo le news sul canale della BBC, come sempre nel mondo non c’è nulla di buono.
            Torniamo al bazar, cerchiamo con discrezione di fotografare le signore che indossano le “necâb” (classiche maschere del golfo), non sarà facile, le donne non vogliono essere fotografate. Il nostro non è un gesto irrispettoso ma pensiamo che le immagini che riporteremo, saranno soltanto una doverosa informazione.

Una signora che indossa la “necâb”
            Passeggiando tra gli stand, facciamo qualche acquisto, si è abbagliati dai tanti colori ed inebriati dagli aromi delle spezie. Mi intrattengo con due belle signore, mamma e figlia, quest’ultima appena sposata “carica” di bracciali d’oro al polso, sicuramente regali di nozze; provo a chiedere di fare una foto insieme, loro non vogliono ed io mi scuso.

L'interno del Bazar
            Cerchiamo un posto vicino al mare per pranzare e riposare durante le ore calde, sperando della brezza marina.
            Nel pomeriggio torniamo nel bazar, trascorriamo tutto il pomeriggio nei vialetti odorosi del mercato, cercando qualche oggetto sfizioso da acquistare, qualche regalino da portare alle persone care. Ci accorgiamo che si sta facendo tardi, i negozi stanno chiudendo i battenti; decidiamo di cenare ancora nell’albergo della sera prima, il pesce è stato squisito, e si può pernottare vicino.
            Stamani il cielo è un po’ velato, ci dirigiamo verso il punto di imbarco, le ultime cose da vedere sono da quella parte dell’isola. La strada che esce dalla città è ben asfaltata, spesso affiancata da alte rocce frastagliate come calanchi che meritano una foto. Più avanti dentro una baia, siamo sorpresi per una serie di grosse imbarcazioni in secca, quasi adagiate su un fianco ma con i marinai a bordo che lavorano. Evidentemente questo è un porto naturale, e l’entrata e l’uscita da questo approdo è regolata dalle rilevanti maree. E’ interessante fotografare questi “cetacei” di legno arenati.

In attesa della marea
            Siamo diretti nella zona delle mangrovie e delle rinomate saline ad ovest dell’isola, il paesaggio torna piatto e sabbioso, si vedono ancora gruppi di dromedari dal loro caratteristico passo. I grandi maschi hanno il “sottopancia”, forse per regolare le nascite come si fa con i montoni nelle nostre campagne.

Dromedari al pascolo
            Controlliamo la mappa, per le saline ci sono trenta chilometri di strada sterrata ed altrettanti per il ritorno, il cielo è sempre coperto con sabbia in sospensione, la visibilità è scarsa, abbiamo deciso di dirigersi direttamente al porto e tornare “in continente”.
            Per i biglietti non ci sono problemi, qui non esistono prenotazioni, si arriva al porto e finché c’è posto si sale. Le operazioni per l’imbarco sempre laboriose, autovetture che cercano di passare avanti ai grandi camion, il tutto in un piazzale polveroso, speriamo ci sia posto anche per noi. Poco dopo ci fanno salire e ci”incastrano” tra due grossi camion, il viaggio durerà meno di un’ora.
            Una volta sbarcati ci restano da fare i sessanta chilometri dell’andata per arrivare a Bandar Abbas. Alle diciannove siamo sul lungomare della città, un luogo tranquillo per pernottare. Davanti a noi un larghissimo arenile ed un grosso mercantile arenato, … ma questa è un’altra storia.

Il mercantile "spiaggiato"
                                                                                               Anna Maria Rosati
                                                        -----ooooo-----

lunedì 2 luglio 2012


                              Una visita a: DIVRIGI, Turchia
Interesse artistico storico:  Ulu Camì e Darüşşifa (moschea e ospedale del XIII sec d.C.), sito protetto dall’UNESCO.
            Il complesso è stato fatto costruire dal sultano Mengüçoğlu Ahmet Şah e dalla moglie Malikaturan Malik nel 1228, durante il periodo mongolo.
Itinerario per Divrigi
            La regione est della Turchia è quella meno battuta turisticamente, ma non per questo è meno interessante. Desideriamo visitare la cittadina di Divrigi, abbiamo letto di una antica moschea con annesso ospedale psichiatrico. Un’unica struttura in pietra dai portali cesellati con raffinati motivi floreali.
            La lettura ci incuriosì, perché mai nel XIII sec d.C. qualcuno fece costruire un “manicomio” in mezzo ai monti? Alla fine del medio evo, non credo ci si preoccupasse molto delle persone malate di mente.
            Lasciamo la città di Sivas ed iniziamo a percorrere una strada di montagna costeggiando un limpidissimo fiume, le acque scorrono con fragore tra rapide e saltelli. Pian piano comprendiamo perché i turisti non vengono da queste parti, per arrivare a Divrigi si devono percorrere oltre duecento chilometri di montagna dai molteplici tornanti, naturalmente stessa cosa per il ritorno.
Il fiume, compagno di viaggio
            Arriviamo a Divrigi alle ore venti, c’è ancora luce, troviamo parcheggio trecento metri più in basso del complesso archeologico, è uno spiazzo in piano, sterrato ma è l’unico “non in piedi” come tutto il resto della cittadella, adagiata sul fianco della collina da est ad ovest. A mezza costa domina “la Camì” la moschea in stile ottomano, splendida e ben restaurata, più in alto quel che resta dell’antico castello medievale.
            Diamo un rapido sguardo dal basso, ormai è ora di cena, più tardi andremo a fare qualche foto in notturna. Vicino al nostro parcheggio c’è un giardino pubblico con un piccolo parco giochi, alcuni bambini ci guardano incuriositi, poi tranquilli, tornano a giocare.
            Dopo cena usciamo e ci incamminiamo verso la Camì, è tutta illuminata e la luce dorata ne risalta tutta la bellezza. Essere qui davanti ci ripaga della difficile strada fatta arrivare. Si!  Ne è valsa la pena.
I meravigliosi portali dell'ospedale e della moschea

Il portale settentrionale
            Scattiamo qualche foto sul piazzale davanti al sito, alcuni ragazzi si avvicinano a noi, cortesemente ci offrono di visitare la moschea, vediamo che è chiusa ma uno di loro ha la chiave, ci dice che è un militare di marina, ma forse è anche il custode.
            La visita all’interno è molto privata, una decina di ragazzi e noi, prendiamo qualche istantanea e con l’autoscatto facciamo una foto di gruppo. Il muezzin “chiama” la preghiera, noi li lasciamo ai loro riti religiosi dandoci appuntamento all’indomani.
Foto di gruppo
            Stamani il cielo è bellissimo, alle dieci la facciata principale è ancora in ombra ed i suoi due meravigliosi portali non risaltano, per fotografarli dovremo attendere qualche ora. Il portale della facciata settentrionale non viene mai illuminato dal sole, è un vero peccato perché è il più maestoso e il più bello. Tantissimi decori, motivi geometrici, foglie lussureggianti, medaglioni ed iscrizioni in arabo.
            Ci limitiamo a riprendere l’esterno poiché la struttura è chiusa, da li a poco arriva un signore ben vestito che ci apre l’ex “l’ospedale”, un edificio studiato appositamente per quelle persone sfortunate. E’ il primo che vediamo in Turchia, considerando anche l’epoca che è stato costruito.

L'interno dell'ospedale
            La struttura interna perfettamente conservata, tutta in pietra viva perfettamente levigata, nelle stanze laterali i suonatori, con la loro musica alleviavano le sofferenze di quei poveri esseri. La cosa che più ci ha colpito è stata una fontana pavimentale che inizia con una spirale, la sua funzione era di far “sussurrare” l’acqua nel passare tra le sue spire, in tal modo, quando la notte i suonatori tornavano a casa, ci pensava il gorgoglìo dell’acqua a tener compagnia ai malati. A pensarci bene, quelle persone di tutto avevano bisogno meno che del silenzio. La cosa straordinaria, che tutto questo è avvenuto ottocento anni fa.

La fontana pavimentale
            Ci intratteniamo con il signore che ha aperto il sito, ci offre del tè, lui parla solo turco, un vero peccato. In uno scarso inglese ci indica che in un’altra sala ci sono alcuni sarcofagi coperti con drappi verdi, sono di alcuni artisti che hanno lavorato al complesso monumentale. Sempre qui, è sepolto anche il sultano che ha fatto costruire il complesso.

L'immancabile tè turco
            Nel frattempo anche la moschea ha aperto i battenti, è il momento della preghiera, lasciamo i fedeli al loro credo. Torneremo più tardi, desidero fotografare i meravigliosi tappeti che ho visto ieri sera. E’ sempre più raro trovare tappeti antichi nelle moschee turche, sostituiti da discutissime imitazioni di moquette.
            Dopo un po’ rientriamo, ormai i fedeli sono usciti, è rimasto soltanto il giovane di ieri, ci dice di essere un muezzin. Fotografiamo alcuni tappeti, ieri con la luce artificiale non mi ero accorta che alcuni di questi erano industriali, è un vero peccato, è quasi un offesa per un luogo così artisticamente raffinato.

L'interno della moschea

I tappeti della moschea
            Torno in camper a preparare il pranzo, Vittorio sale sul sentiero che lo porterà in cima al castello per fotografarlo, al suo ritorno dirà  che da lassù, oltre la cresta, ha visto il fiume incuneato in un bellissimo canyon, lo stesso fiume che all’andata ci aveva accompagnato per tanti chilometri.


Il castello medievale

Il fiume ed il canyon
            Il sole è allo zenit, è abbastanza caldo, per fortuna c’è un buon venticello che ci fa respirare, ne approfittiamo per mangiare e riposare un po’.
            Nel pomeriggio il prospetto principale della moschea è illuminato, Vittorio ci torna per completare il servizio fotografico mentre io rimango a “casa” a scrivere il diario.

Il portale della moschea in piena luce

Particolare delle incisioni
            Lasciamo Divrigi ancora con l’ottima luce di un pomeriggio di tarda primavera, la via del ritorno non è la stessa dell’andata, una strada interna che sulle cartine è segnata in giallo, quindi un’incognita. Chiediamo informazioni e ci rispondono ”asfalt”, prendiamo coraggio e via!
La percorriamo con calma fermandoci più volte a riprendere il corso d'acqua costeggiato di betulle.
            Con il sole ancora alto ci accorgiamo della meravigliosa vegetazione spontanea che ci circonda, fiori di vari colori, spiccano papaveri di rara grandezza, sia per bulbo che per calice dal colore rosso accecante.

Vegetazione spontanea
            La strada anche se di montagna è buona, superiamo un paio di valichi intorno ai duemila metri, piccoli villaggi isolati si susseguono sull’altopiano, non oso pensare a questi luoghi durante la stagione invernale. Nella località di Bolucan incontriamo diverse postazioni militari, qui siamo in pieno Kurdistan, salutiamo le sentinelle e loro contraccambiano con simpatia.
            Arriviamo a Refahiye che è sera, qui è prevista la sosta notturna.
                                         Buona notte e alla prossima visita
                                                                             Anna Maria Rosati
                                                                    -----ooooo-----


venerdì 29 giugno 2012


                          A postcard especially for our friend, Hamid Farhadpour

   Una cartolina da: Torbat Jam,  Sheikh Ahmad Jami Mausoleum

   

    Sheikh Ahmad Jami Mausoleum, notturno


    In attesa della preghiera


    Studente di scuola coranica


    L'intensità della preghiera

   La gentilissima interprete
                                                                -----ooooo-----