venerdì 19 ottobre 2012


                       Una visita nella terra dei Dogon
Il viaggio in Mali è arrivato quasi al culmine, Siamo a duecento chilometri dalla falesia dei Dogon.
I Dogon, un viaggio nel viaggio.
Ci lasciamo alle spalle la città di Djanné e dobbiamo prendere una decisione importante, portare al termine il viaggio o tornare indietro. La scelta da fare è dovuta da un perentorio SMS della Farnesina, lasciare la zona e ripiegare sulla capitale Bamako. Ci sono segnalazioni che tuareg armati provenienti dalla Libia, sono entrati o stanno per entrare a Timbuctù.
Ci lasciamo alle spalle il piccolo traghetto per Djanné
La notizia era già nell’aria da giorni, infatti nella capitale ci sono state delle manifestazioni contro il governo per questa situazione. Familiari dei militari erano preoccupati per i loro congiunti, mandati nel deserto a contrastare l’avanzata di questi miliziani fuoriusciti. Giovani militari, probabilmente cittadini e con poca esperienza, inviati a combattere contro uomini che del deserto ne conoscono ogni segreto.
Timbuctù è distante da Bandiagara (città principale della terra dei Dogon, e nostra ultima destinazione) circa quattrocento chilometri. Sappiamo anche, che i Dogon sono acerrimi nemici dei tuareg, per cui non crediamo che le due popolazioni possano scontrarsi tanto facilmente. Per ulteriore tranquillità telefoniamo ad un amico di Bamako, lui ha un’agenzia turistica ed in questo momento si trova proprio nella terra dei Dogon, con un gruppo di italiani. Veniamo rassicurati.
La decisione è ben presto presa (per conoscenza diretta, le nostre rappresentanze all’estero, spesso eccedono in allarmismi), si va avanti. In questo viaggio abbiamo visto molte cose belle ed interessanti, ma quest’ultima destinazione è la più importante di tutte e non ci vogliamo rinunciare.
Torniamo sulla statale n°6 e puntiamo decisamente ad est. Immancabilmente veniamo fermati ad un posto di blocco per controllo passaporti, in questo Paese come pure in Mauritania, usano un sistema pratico e veloce; alle autorità basta consegnare una “fiches” precedentemente compilata con tutti i dati delle persone e del camper e si può subito ripartire. Noi abbiamo preparato questi documenti con il computer ed un centinaio di stampe. In mancanza di questi la cosa è più lunga, i poliziotti o chi per loro, devono trascrivere quanto riportato, sui passaporti, patente, libretto di circolazione etc.
Uno dei tanti avvisi di posto di blocco.
Dopo qualche ora arriviamo alle porte della città di Bandiagara. Entriamo in un piccolo motel con ampio giardino ombreggiato e silenzioso usato come camping. Per il primo pomeriggio contattiamo una guida che ci dovrà accompagnare nei prossimi giorni per visitare i villaggi dove vivono le popolazioni Dogon.
Verso le quindici arriva il nostro accompagnatore, è giovane, poco più di un ragazzo, ci è stato consigliato perché diretto discendente di questa etnia. Si chiama Musa e parla francese, cercheremo di intenderci al meglio. Gli chiediamo se è possibile fare le escursioni con il nostro camper, la risposta è positiva.
Usciamo dalla città, dopo pochi chilometri prendiamo una strada laterale in terra battuta, poco più di una pista, non è questo che ci spaventa ma, il continuo “tole ondulée” ci impensierisce un poco. Chiediamo a Musa: la strada è tutta così? Anche questa volta la risposta è affermativa. Forse non ci siamo intesi abbastanza.
I trentacinque chilometri per arrivare ad un villaggio e altrettanti per tornare indietro, non è proponibile. Il nostro camper “non ce lo perdonerebbe mai”. Optiamo per un'altra soluzione, da domani noleggeremo un fuori strada 4x4 con autista e faremo l’escursione con lui, mentre Musa continuerà a farci da guida.
Nel rientrare al camping ci fermiamo a Bandiagara, il nostro accompagnatore ci vuole mostrare un laboratorio per preparare e confezionare medicinali. Tutti i farmaci sono fatti con prodotti naturali, ma gli strumenti ed i macchinari, sono stati donati dall’Italia.
Rientrati al campeggio e con l’aiuto di Musa, parliamo con il proprietario del fuoristrada, dopo l’inevitabile contrattazione, ci accordiamo per l’escursione del giorno dopo.
È ancora abbastanza caldo, accendere il gas per cucinare peggiorerebbe la situazione, veniamo informati che è possibile mangiare presso il ristorantino del motel, dietro nostra richiesta la cena ci viene portata nel camper a mo’ di catering. La nostra “casa” è sicuramente più accogliente e, con bevande migliori. Il mangiare è stato ottimo: riso con sugo di verdure, spiedini di carne e patatine fritte. Cosa vuoi di più in terra africana? 

 La Buona cena

Prima di coricarci, controlliamo sul computer le fotografie scattate il giorno prima a Djanné, siamo soddisfatti, considerando il fatto che molte istantanee sono stare scattate di nascosto o con il tele. Io vado a riposare, Vittorio sceglie una ventina di foto da spedire agli amici tramite internet. La spedizione verrà fatta in seguito, in questa remota regione da qualche giorno non abbiamo collegamenti; non partono neanche gli SMS.
                                              Partenza per la falesia
Alle sette pronti con zaino in spalla e macchine fotografiche. Ho una brutta sorpresa, la vettura contrattata ieri sera da Vittorio alla luce del sole non ha un buon aspetto, una vecchia Opel Frontera la cui manutenzione dovrebbe risalire alla notte dei tempi. Speriamo non ci pianti per la strada.
Riprendiamo la pista di ieri, con il fuoristrada è tutto un'altra cosa, sembrerà strano ma ogni tole ondulée va percorso ad una velocità appropriata, spesso mai sotto i 70 Km/h per non avvertire le forti vibrazioni delle piccole gobbe. Con il camper, questa velocità è insostenibile con una simile pavimentazione.
Il panorama ai lati della pista è abbastanza arido, i grandi bao bab spiccano con la loro imponenza, sono spogli, sembrano secchi. Veniamo rassicurati, queste sculture viventi stanno benissimo, è solo il periodo di “secca”. Dopo un po’ il paesaggio cambia, una distesa verde brillante da colore al territorio. È la nostra prima tappa, Musa è orgoglioso di mostrarci il prodotto tipico della zona, una coltivazione a perdita d’occhio di cipolline dalle lunghe foglie, alcuni braccianti le stanno irrigando con sistemi antiquati.

La rigogliosa coltivazione
La pista prosegue sull’altipiano, c’è ancora molta strada da fare prima di arrivare alla falesia. Passiamo per il villaggio di Djiguibombo, un classico centro Dogon, piccolo, ordinato e pulito. Stretti vialetti limitati con muretti a secco separati dai caratteristici granai con il tetto di paglia.
il villaggio di Djiguibombo
La prima persona che incontriamo è un simpatico vecchietto, un ultracentenario di centosei anni, per mia fortuna accetta di buon grado essere fotografato insieme a me nel cortile della sua casa. Una casa piccola e quadrata, mi affaccio sull’uscio, sua moglie è all’interno distesa sopra un pagliericcio, intorno tanti pulcini e tanti stracci. A lei non faccio fotografie, perché quando si alza vedo che è poco vestita.

L'ultracentenario
In giro per le stradine, tanti bambini che giocano, per loro oggi è una giornata festiva, qualcuno tenta di seguirci un poco, tra di loro una bambina di una decina d’anni porta sulle spalle il fratellino più piccolo, poi tornano ai loro semplici giochi.

Bambini che accudiscono bambini.

Iniziano ad arrivare i bambini.
Qua e la, a piccoli gruppi di due o tre persone parlano tra di loro, sarebbe interessante sapere qualcosa dei loro dialoghi, cosa si possono raccontare degli individui che vivono in paesino di poche decine di abitanti?

La "piazzetta" del villaggio, sullo sfondo ... "il tribunale"
L’escursione continua, l’altopiano termina alquanto bruscamente con un salto vertiginoso di un centinaio di metri. La vista è ampia, dune sabbiose si confondono con l’orizzonte. Vertiginosi sono anche i tornanti che portano alla valle sottostante, è qua che si trovano la maggioranza dei villaggi da visitare. Siamo sulla falesia dei Dogon, una costa rocciosa con pareti a picco. 

La ripida discesa della falesia.
Una volta arrivati in pianura, la parete rocciosa è ancora più impressionante, questa ripida muraglia naturale si snoda per centinaia di chilometri. È alle sue falde che si svolge la vita dei Dogon. Un villaggio dopo l’altro, per quasi tutta la falesia, un territorio stretto tra la roccia e le sinuose curve delle sabbie.
Il primo villaggio che incontriamo si chiama kani Kombole. La parte storica che accomuna questi centri abitati, sono le antiche abitazioni a mezza costa della falesia. Quasi tutta la lunghissima parete rocciosa è una continua spelonca che accoglie antiche dimore, molti di questi insediamenti ricordano i “pueblos” indiani del New Mexico. È strano vedere che popoli tanto diversi e lontani, abbiano usato lo stesso stile di fabbricazione.

Le antiche abitazioni dei Dogon.
Attualmente tutte queste costruzioni sono abbandonate, o al massimo  vengono usate per le sepolture dei defunti. I nuovi insediamenti sono ubicati nella parte pianeggiante, piccole case quadrate con muretti di cinta per delimitare cortili o piccoli orti famigliari. Non credo che nelle case ci sia l’acqua corrente, vista l’alta affluenza alla fontana pubblica. Qualcuno ci fa notare che la grande pompa per sollevare l’acqua, è italiana.

La fontana pubblica.
Tutta l’area è cosparsa da alberi di bao bab carichi di frutti, gli abitanti del posto utilizzano la corteccia del tronco per realizzare le famose maschere da cerimonia o funebri.  Usano i loro frutti, anche per farne dei souvenir, una volta asciugati ne incidono la buccia, e li adoperano come maracas, il suono è dato dai suoi semi essiccati.
Proseguendo la passeggiata, una strana costruzione ci incuriosisce, dei pali lavorati sostengono una struttura coperta da abbondanti fascine di legnetti che fungono da tetto. La cosa strana, è che l’area calpestabile sottostante è bassa, non ci si può stare in piedi, il nostro accompagnatore ci dice che questa costruzione funge da tribunale, per dissipare questioni inerenti al villaggio, ed il fatto di stare chinati si giustifica come un gesto di umiltà verso i vecchi saggi seduti.
La struttura coperta, sorretta da sostegni intagliati.
Le costruzioni più grandi sono riservate al culto religioso. Una piccola moschea con il tetto merlato è alternata ad una altrettanto piccola chiesa cristiana. Musa ci dice, che tra i Dogon, convivono pacificamente varie confessioni religiose. Poco più avanti, un gruppo di anziani sono in conversazione, uno di loro porta un crocifisso al collo, ci fermiamo un attimo per stringerli la mano e scattare qualche istantanea.

La piccola moschea.

Cristiani e musulmani, pacificamente insieme.
In un piccolo localino dove vendono di tutto, ci ristoriamo con un tè ed acquisto due maracas del famoso albero. Poco distanti un gruppo di donne con abiti coloratissimi, sono impegnate a pestare i cereali nei mortai con pesantissimi bastoni; Vittorio cerca di riprenderle con il teleobiettivo. Un lavoro pesante al femminile, cominciano da piccole ad essere iniziate a questa mansione; e i maschi? Se li vedi sono a chiacchierare sotto un albero.

La macinatura dei cereali.
Il viaggio continua a Tely, è stupefacente vedere l’antico insediamento incastonato nella roccia. I primi abitanti hanno sfruttato tutta l’ampiezza della volta per inserire le loro abitazioni e, i loro granai sorretti da pali in legno per isolarli dall’umidità. Vedere tutti questi manufatti in fila è come vedere una New York preistorica, perlomeno questa è stata la mia prima impressione.

L'antica Tely.

Il sito è ben conservato, probabilmente il clima asciutto rispetta il magro intonaco di paglia e fango che ricopre le vetuste dimore. Ci piacerebbe arrampicarci fin lassù e camminare tra gli angusti vicoli, ma il poco tempo a disposizione non ce lo permette, ci limitiamo a fotografarli dal basso.
La grande spelonca che ospita il villaggio.
Il villaggio di Tely, ha una graziosa moschea ricca di guglie, il classico stile maliano. Dalle sue pareti esterne, escono dei pali lignei lavorati che ne abbelliscono l’aspetto e, nello stesso tempo servono da base per i lavori di restauro. In Mali, l’ingresso alle moschee è vietato ai non musulmani, mi sarebbe piaciuto vederne l’interno.

Una raffinata costruzione.

Nelle viuzze polverose non c’è quasi nessuno, una bimbetta cammina a piedi scalzi con passo deciso davanti alla mamma.

Il passo della bimba precede la mamma.
Una signora mi ferma, vuole scambiare il suo fazzoletto blu con il mio kefiah, con un sorriso le dico che non posso, è il ricordo di un viaggio in Iran.

Non posso scambiare il mio kefiah.
La nostra guida dice che nel prossimo paesello faremo la sosta per il pranzo, si chiama Ende ed è il più vasto villaggio della zona. Guardando la falesia dal basso, notiamo che anche qui a mezza costa c’è un piccolo originario insediamento. La parete rocciosa prima di cambiare direzione, termina con un altissima guglia assottigliata alla base, la chiamano il dito di Ende; un po’ più in basso a lambire il paese, una ricostruzione del vecchio abitato, una specie di museo a cielo aperto per tenere viva nei giovani la loro storia architettonica.

Sullo sfondo, il dito di Ende.
Quando ci arriviamo, comprendiamo perché negli altri villaggi non c’era nessuno, oggi è giorno di mercato e qui si radunano tutti i venditori e gli acquirenti delle zone limitrofe. Vengono a piedi da villaggi lontani con le loro mercanzie, pesanti fardelli sulla testa e, quasi tutte con un figlio legato dietro le spalle. Dopo un primo rapido giro, andiamo al ristorante, al mercato torneremo dopo.

Il mercato di Ende.
Entriamo in un cortile, in un lato ci sono delle stanze, segno evidente che questo posto è anche un albergo dove possono fermarsi isolati viaggiatori come noi. Di fronte si trova il piccolo ristorantino; nella sala, appesa ad una parete, c’è la mappa di tutta la falesia dipinta sopra un telo a mo’ di batik, da questa possiamo ricostruire il nostro percorso.
Ci sono anche negozietti che vendono artigianato, compero una sciarpa blu, è semplicissima, cucita a strisce come usano da queste parti. Nell’attesa del pranzo, siamo seduti all’ombra di un portico coperto in paglia, un meritato relax.

Artigianato locale.
Una coppia di olandesi è seduta nel tavolo affianco, consumando una birra ci spiegano che ogni anno vengono qui per far visita alla bambina che hanno adottato a distanza. Anche a loro è arrivato un messaggio dal ministero degli esteri olandese, ma gli suggerivano esattamente il contrario di quello che hanno detto a noi, cioè di rimanere li e momentaneamente non tornare nella capitale. Si meravigliano che siamo arrivati fin qui con il camper, in effetti un viaggio impegnativo, soprattutto per le pessime condizioni se non addirittura la mancanza di strade.
Finalmente ci portano il pranzo: riso con sugo di cipolline, polletto ruspante e birra, tutto molto buono. Oltre a noi europei, questo posto è anche frequentato come ritrovo dagli “sfaticati” del villaggio, sempre e solo uomini.
Sempre in tema di relax, sorseggiando un buon tè, Vittorio sta negoziando con l’autista l’escursione di domani, ci sono moltissimi villaggi lungo la falesia ma almeno altri quattro meritano una visita; la richiesta sembra esosa ma troviamo un accordo. Sappiamo che in Mali il carburante costa circa un euro al litro, una cifra impensabile per redditi cosi bassi.
Nelle prime ore del pomeriggio il mercato è ancora più animato. All’ombra di grandi alberi, centinaia di venditrici con i loro vestiti dalle tinte vivaci, sono disposte in varie file in un “ordinato caos”. Sono in vendita diverse specie di verdure, ed ortaggi di ogni genere, pochissima frutta, qualche papaia e rarissimi mango.

Il coloratissimo mercato.
Mi chiedo quanto possano guadagnare vendendo quattro cipolle, rape, insalate e radici varie, ma i loro volti sono sereni; i “nevrotici” siamo noi occidentali. Compero dei pomodori rossi ed altri verdi, quest’ultimi sono di un tipo che non conosco, Musa dice che sono buoni, li proveremo.
È interessante passeggiare tra i “banchi”, da notare che qui nessuno grida per reclamizzare la merce, gli acquisti si svolgono con tranquillità. Cerchiamo di fare qualche foto con discrezione, più che la curiosità è la testimonianza di un mondo che ruota nello stesso modo da centinaia di anni. Deve essere l’ora della poppata, molte signore durante la vendita uniscono i figli con il proprio seno, e nessuna delle due attività ne risente.

E' l'ora della poppata.
Qua è la, venditrici di acqua, poco più che adolescenti, portano il prezioso liquido con recipienti ricavati dalle zucche. Troviamo anche qualche venditore, loro tagliano e vendono carne per fare gli spiedini.

La piccola venditrice d'acqua.

È una festa di colori, l’abbigliamento dai colori brillanti contrasta nettamente con il bruno della pelle. Se noi occidentali indossassimo i loro abiti variopinti, sembrerebbe carnevale; al contrario, a queste signore danno un portamento regale.

 Vestiti che fanno pendant con i copricapo.

Una festa di colori.
Il sole sta calando in fretta, dobbiamo rientrare in pista prima del buio. Una tortuosa salita, poco più che un sentiero si arrampica dentro una stretta gola rocciosa. Stiamo attraversando la falesia percorrendo una stretta pista tra alte pareti e calanchi, l’autista è bravo a dispetto dell’auto alla quale davo poco affidamento. Il paesaggio si è acceso di rosso, ricorda il “plateau de Fadnoun” in Algeria, Altro bellissimo viaggio.
Oggi abbiamo osservato tante cose belle ed interessanti, una falesia piena di vita e di colori, bimbetti che rincorrevano i loro semplici giochi e tanti personaggi intenti alle proprie faccende. Piccoli villaggi ordinati e puliti, dove vivono in pace cristiani, musulmani e animisti, lontani da ogni fanatismo o fazione. Non c’è la corrente elettrica, niente televisione, lontani da ogni forma moderna di tecnologia. Proprio un altro mondo.
Musa ci parla di alcune usanze locali, dei capo villaggio e dei “griot” (i griot anticamente erano i consiglieri del re), oggi sono una specie di consiglieri e giudici di pace del villaggio. Molte persone si rivolgono loro per contrattare i matrimoni tra giovani coppie. Situazioni ancestrali, mondi lontani, altre galassie, eppure poco distanti dalla nostra civiltà.
Nel rientrare nel camping pensavamo di non mangiare, poi un sottile profumino proveniente dalla cucina ci ha fatto cambiare idea. Ancora catering: riso con il sugo di pollo, pollo in umido, frittata e patate fritte, tutto buonissimo.
Prima di coricarci, facciamo il punto della situazione, poi dal momento che c’è la linea, facciamo qualche telefonata a casa, a Roma sta nevicando, scuole chiuse, bambini felici, gli adulti un po’ meno.
                                               Si torna sulla falesia
Questa notte abbiamo dormito profondamente, nonostante le forti raffiche di vento, alle sette siamo già pronti a muovere. Il cielo è velato, c’è una strana nebbiolina in sospensione, speriamo si sollevi. Califan l’autista e Musa la guida, anche loro sono puntuali, giusto il tempo di fare rifornimento e riprendiamo la strada per la falesia.
La pista si fa sempre più sassosa, il fuoristrada e noi subiamo gran scossoni; in queste occasioni ci vengono in mente le parole di Peppe, un grande viaggiatore di Sulmona: «se vuoi conoscere il mondo, devi soffrire».
Il primo villaggio lo troviamo sull’altipiano, è Sangha, anche qui come in quasi tutti i villaggi del Mali bisogna pagare “una tassa” al capo villaggio, una sciocchezza poco più di un euro. Le giustificazioni sono le più svariate, ma poco importa così facendo possiamo girovagare tranquillamente tra le strette viuzze alla ricerca di angoli suggestivi.

Due anziani di Sangha.
La nebbia non sale, ci rendiamo conto che si tratta di sabbia in sospensione, il vento di questa notte deve aver sollevato molto “fesh fesh”. Un vero peccato, credo che tutto ciò che vedremo sarà attenuato dal pulviscolo.

C'è sabbia in sospensione.
Qui a Sangha, la nostra guida ha dei parenti, Musa vuol farci conoscere sua cognata. Per arrivare in casa bisogna salire sopra dei grandi sassi, dove io inciampo e cado procurandomi  un dolore al polso, oggi non potrò usare la macchina fotografica.
La ragazza ci accoglie sull’uscio, ha in braccio un piccolo bambino nato una settimana fa e, attaccato alla gonna dietro di lei, un piccolo di circa due anni. Vittorio scatta alcune foto, mentre io sono seccata per la caduta.

Veniamo accolti nella semplice casa.
In questo villaggio ci deve essere una certa affluenza turistica, venditori in “agguato” ci vengono intorno ed altrettanti bambini ci chiedono di tutto.
Il secondo villaggio è Bongho, a parte una grande spelonca che attraversa tutta la collina a mo’ di galleria, non c’è niente da vedere, all’ingresso i soliti venditori di souvenir ci corrono dietro. Per stare tranquilla acquisto due maracas di bao bab.

La caverna di Bongho.
Rientriamo in pista, a parte la foschia sempre più fitta, la viabilità si fa terribile, con vorticose curve in discesa strette tra due pareti rocciose. Il nostro accompagnatore dice che questa è la parte più bella della falesia. Poco dopo i ripidi tornanti arriviamo a Banani, l’auto ci lascia all’inizio del paese. Nella piazzetta in terra battuta qualche ragazza vende i pomodori verdi come quelli che ho comperato ieri.

Pomodori e frittelle.
Passando vicino i bassi muretti delle case, scorgiamo scene di vita locale, soltanto donne alle prese con le faccende domestiche.

Lavori domestici davanti casa.
Rispetto ai villaggi di ieri, la parte antica delle case a mezza costa della falesia è ancora abitata, purtroppo la scarsa visibilità non fa vedere molto, bisogna salire.
Per arrivarci non c’è strada, ne un sentiero, l’unico passaggio si snoda attraverso dei grossi massi, lentamente e, con prudenza iniziamo la salita. Dopo qualche minuto veniamo superati in velocità da alcune donne che calzano le infradito, certe con il bambino dietro le spalle, sicuramente saranno abituate da bambine. Noi nonostante le scarpe da trekking non riusciamo a stargli dietro. Non vogliono farsi fotografare, ma Vittorio con il suo telecomando tenta qualche istantanea, forse verranno un po’ “tagliate” ma meglio di niente.

Donne che salgono velocemente con i piccoli dietro la schiena. 

.... e con le ciabattine.
Nella parte alta del villaggio, case e granai si snodano nei stretti vicoli, ci troviamo in un museo etnico a cielo aperto, un bimbetto ci chiama con un bel sorriso, sotto lo sguardo vigile della mamma.
La parte antica di Banani, è ancora abitata.
Rimaniamo a passeggiare tra case e muretti avvolti dalla foschia, quando riscendiamo dei colpi ritmati attirano la nostra attenzione, un uomo con un’ascia artigianale è alle prese con i resti di un grande tronco. La sua accetta ricorda quelle viste nei musei dell’età del ferro. È un vero peccato avere poca visibilità, soltanto ieri il cielo era limpido e tutto risaltava di più.

Un susseguirsi di granai.
Dei due successivi villaggi, Ireli e Tireli c’è poco da raccontare, il pulviscolo si è fatto più denso e si fa fatica a distinguere la falesia dal resto che ci circonda. A Ireli riusciamo a vedere una guelta (un bacino di acqua naturale) dove vivono numerosi coccodrilli, facciamo soltanto un paio di foto e si riparte.

I coccodrilli "sacri" di Ireli.
Tireli non è distante, ci fermiamo per il pranzo, ogni villaggio ha il suo “ristorantino” che oltre al pollo hanno ben poco da offrire, però è ruspante.
La speranza che nel primo pomeriggio l’aria si rischiari svanisce presto, quest’area lambisce il deserto del Sahara e, noi sappiamo che in quella regione questo fenomeno dura dai tre ai sette giorni. La cosa strana e che siamo in febbraio mentre le perturbazioni iniziano da fine marzo.

Nell'aria c'è ancora sabbia in sospensione.
Dopo la sosta torniamo verso Bandiagara, entriamo in una pista sabbiosa ed attraverso piccole dune cerchiamo di dirigersi verso l’altopiano. Il percorso è infido, la visibilità è di poche decine di metri, per non farci mancare nulla ci insabbiamo. Un giovane che passava poco distante, ci aiuta ad uscire da questa scomoda posizione e ci indica la giusta direzione. Saliamo sopra un letto di sassi e poi di cemento (una massicciata costruita da poco), che ci porterà dritta al passaggio per risalire la falesia.
Terminato il fondo duro, c’è un tratto sabbioso da superare in velocità per non sprofondare nella sabbia; dobbiamo arrestare la nostra marcia, nel bel mezzo della pista ci sono due carretti carichi di legna trainati dagli asini che non ne vogliono sapere di muoversi. I conducenti, una donna ed un bambino si stanno affaticando per far ripartire gli animali, provano a tirare, a spingere, ma gli asini immobili, si sono piantati.

Asini e carretti, si sono piantati in mezzo alla pista.
Musa scende ad aiutarli, e finalmente dopo aver liberato il passo, con una breve rincorsa saliamo il primo tornante. Penso a quella donna e a quel bambino, una famiglia come tante di quest’area, dove una madre deve farsi carico di tutto, anche delle situazioni più difficili.
La strada per tornare è adatta più ad un cingolato che per un fuoristrada, si dovrebbe indossare il casco, gli scossoni ci sbalzano da un lato all’altro della vettura. I nostri compagni di viaggio parlano in continuazione, emettono suoni gutturali, non so parlano in arabo o in un dialetto dogon, il tono è alto, ma sorridono in continuazione.
Oggi è stata una giornata così, così. Con quel “fesh fesh” nell’aria non potevamo aspettarci niente di più. Tornati al campeggio, decidiamo di partire subito alla volta di Sevarè, faremo base li per visitare domani la cittadina di Mopti, prima di iniziare il lungo viaggio di ritorno. 
                                                                                                 Anna Maria Rosati

lunedì 1 ottobre 2012


                                           Una visita a Persepoli

            Lasciamo la città di Isfahan per andare a Shiraz. Durante il trasferimento faremo una leggera deviazione per Pasargade, Naghsh-é Rostam e Persepoli.

Un lungo itinerario percorso tante volte

            Ci fermiamo davanti una postazione militare a Izad Khast, dove un giovane ufficiale ci fa pernottare.
            Abbiamo riposato bene. Alle otto, il militare accompagnato da due colleghi ci da il buongiorno, cortesemente ci chiede a che ora proseguiremo per Shiraz, forse non possiamo sostare oltre. Poco dopo ci mettiamo in moto, ma la nostra marcia si arresta presto; siamo fermi ad un distributore di carburanti per mancanza di corrente.

I simpatici addetti al distributore 

            La strada gira verso est e attraversa un deserto piatto e brutto, le uniche asperità sono dei cespugli secchi, in lontananza delle montagne polverose chiudono l’orizzonte. Il clima sta cambiando, c’è un po’ di polvere in sospensione.
            Sulla statale ci sono molte pattuglie di polizia. Anche qui sono arrivati da tempo i rilevatori laser di velocità. Siamo diretti a Pasargade, l’antica capitale achemenide fondata da Ciro il grande verso il 546 a. C. Un cartello stradale indica che mancano quaranta chilometri, ma per arrivarci ne faremo sessanta. Nelle vicinanze dell’ingresso del sito archeologico troviamo un bellissimo ristorante; è aperto da poco, qualche anno fa non c’era. Ne approfittiamo per pranzare.
            L’area da visitare è talmente vasta, che nell’interno si viaggia con i mezzi propri. Il più importante monumento è la tomba di Ciro, un edificio a gradoni con grandi pietre squadrate, e il tetto a spioventi di pietra, il suo interno doveva contenere il sarcofago del Grande Re.

La tomba di Ciro il Grande

            Tutto intorno oggi è molto curato, diversi cartelli in farsi e in inglese ne raccontano la storia. Purtroppo l’opera archeologica è circoscritta da una impalcatura, un custode ci dice che ci vorrà ancora un anno per terminare il restauro.

Alessandro Magno disse: "una tomba così semplice per un uomo tanto grande"

            Il giro continua tra resti di grandi palazzi con le nicchie votive scavate nel marmo.

Il cavalletto ci fa sempre belle fotografie

          La strada in salita va verso il “trono della madre di Salomone”, una costruzione squadrata di cui resta soltanto il grande basamento rivestito di lastre calcaree adagiata su una collina.  Nel suo interno si trovano alcuni ambienti sotterranei, forse dei magazzini. Da quassù si gode un ottimo colpo d’occhio sulla valle sottostante. Si è alzato un vento teso, tra le fenditure dei marmi ci devono essere dei nidi di falco, perché approfittando delle folate, alcuni falchetti provano il primo volo.

il “trono della madre di Salomone”

            Avvicinandosi verso Persepoli, ci fermiamo a Naghsh-é Rostam. Una zona con quattro tombe reali scavate nella roccia, tutte di notevole altezza e pregio.

Una panoramica di Naghsh-é Rostam

            I sepolcri appartenevano a re come Dario, di suo figlio Serse (il re che ha combattuto alle Termopili)  ed altri re a loro succeduti. Peccato per le fotografie che questi monumenti siano in leggera ombra, ne godremo visivamente.

La tomba di Serse

Tombe di dimensioni faraoniche

            La particolarità del luogo sta nel fatto che questo sito è stato vissuto per oltre un millennio. I primi rilievi risalgono a circa l’anno mille a. C., le tombe reali sono state realizzate tra il quinto ed il terzo secolo a. C., mentre alcuni grandi bassorilievi raffigurano l’imperatore romano Valeriano fatto prigioniero dal re sasanide Shapour nel duecento sessanta d. C.
             Passeggiando sotto le pareti rocciose dove sono intagliate le tombe, ci sono varie sculture pregevoli, bassorilievi che rappresentano le vittorie dei re persiani sugli imperatori romani. Vittorio scherzando dice “ non è piacevole vedere due imperatori come Valeriano e Giordano III°, in ginocchio davanti al cavallo  di un re achemenide”, poi aggiunge “se ne potevano sta a casa”.

L'imperatore Valeriano, sconfitto da Shapour I°

            Di fronte alle tombe si trova una costruzione isolata in marmo bianco, la sua altezza supera i dodici metri, dovrebbe trattarsi di un tempio zoroastriano, l’antica religione preislamica iraniana. Nel frattempo sono arrivati alcuni turisti giapponesi in maggioranza donne, credo siano gli stranieri più numerosi in terra persiana; sono vestite all’occidentale con camicette corte da far vedere le forme.

 Turiste giapponesi

            Scambiamo qualche parola e insieme ci dirigiamo ai margini del sito; qui, quasi nascosta c’è una bellissima scultura, l’investitura del re Ardashir I°. Il fedele cavalletto ci fa una buona foto.

l’investitura del re Ardashir I°

            Rispetto a dieci anni fa il sito ci sembra migliorato, sul posto si trovano depliant e cartelli con le informazioni turistiche; anche se, solo nelle lingue persiana ed inglese. Normalmente, per non rimanere delusi, diciamo di non tornare più nei luoghi visitati. Questo non vale per l’Iran, qui le cose migliorano, evidentemente stanno riscoprendo l’importanza delle antichità preislamiche.
            Torniamo sulla statale Isfahan – Shiraz, di fronte il bivio si trova Naghsh-è Rajab, c’è una località minore dello stesso periodo sasanide. A differenza delle altre località archeologiche, questa non è visibile dalla strada, i quattro bassorilievi sono dietro strette insenature rocciose. Un rapido sguardo ne vale la pena.

Il sito archeologico di Naghsh-è Rajab

            Siamo vicini alla nostra meta, Persepoli.  Tra quattro chilometri saremo davanti la scalinata della antica città, ci sentiamo emozionati come la prima volta. Poco dopo cambiamo di umore, la vecchia strada è stata chiusa, questo ci costringerà ad un lungo giro prima di arrivare.
            Come dicevo prima, a volte le cose migliorano, le autorità hanno voluto fare le cose in grande, un ampio viale  lungo tre chilometri costeggiato da parchi,  danno il benvenuto ai visitatori. Il parcheggio davanti il sito è stato sostituito da una zona pedonale. Vicino le biglietterie trovano collocazione ristoranti, negozi di souvenir e sale da tè. È stata realizzata una ampia area di sosta controllata. È qui che passeremo la notte.
            Giusto il tempo di parcheggiare che un violento, quanto passeggero temporale si abbatte sulla zona; meglio così, si abbasserà la polvere in sospensione. Dalla finestra del camper si vede il palazzo di Dario. Questa sera ceneremo con un bel panorama.

Dalla finestra del camper

            Manca ancora un poco al tramonto, mi metto a riposare mentre Vittorio proverà ad entrare prima della chiusura del sito. Al suo ritorno mi racconterà che all’ingresso, vista l’ora tarda lo hanno fatto passare senza pagare il ticket. Dopo un breve giro e qualche foto, è tornato a “casa”.

La porta di Serse

            Stamani alle otto siamo già davanti al botteghino. La giornata è limpida, c’è un bel sole e non è molto caldo “l’acquazzone” di ieri ha ripulito l’aria.

Siamo i primi ad entrare a Persepoli

            Già davanti la grande scalinata di accesso si notano i miglioramenti, i gradini di marmo per protezione, sono completamente ricoperti da scalini in legno, ad eccezione di una piccola fascia laterale per farne vedere l’antica sistemazione.
            L’enorme ingresso, la porta di Serse (o delle nazioni) ci accoglie per iniziare l’escursione. Da un lato il portale è scolpito con due statue taurine di notevole grandezza; nel lato opposto con la stessa grandezza altre due, ma di influenza assira, le attraversiamo per fotografarle in tutti i particolari. Da questa postazione si ha la visione dell’Apadana nella sua interezza.

 Il lato interno della porta di Serse

Il grande complesso della porta di Serse o delle Nazioni

            La scalinata delle nazioni, che porta sull’Apadana  è ancora coperta da una tettoia in metallo, rispetto a dieci anni fa però è verniciata di bianco e, della vecchia ruggine non c’è più traccia. Qui  si riunisce la maggior parte dei visitatori, le pareti alte delle rampe di accesso sono decorate con raffinati bassorilievi, raffigurano la processione dei rappresentanti delle ventitré nazioni sottomesse, oltre ai cortigiani  e la guardia reale di Dario I° il grande. Le incurie del tempo e dell’uomo non hanno intaccato questo capolavoro.  

 Studentesse in visita

 Un particolare del basamento della scalinata delle nazioni


Un particolare della della scalinata delle nazioni

            L’ Apadana, Il più grande degli edifici del complesso, è costruito al di sopra di una terrazza in pietra, una posizione dominante rispetto alla città, comprendeva una grande corte centrale delimitata da una settantina di altissime colonne. Oggi in piedi ne restano tredici, hanno dei capitelli particolari.

Sullo sfondo il palazzo dell'Apadana, a sinistra il palazzo di Dario

            Sotto la pensilina sono radunate alcune scolaresche femminili, tutte bambine con il maghnaé  bianco, il classico copricapo delle studentesse. Vittorio intona una canzone in lingua persiana, una filastrocca per imparare i giorni della settimana, un vero spasso perché studentesse ed insegnanti gli hanno fatto il coro.

Sono tutte sorprese, per la canzone in lingua persiana

            Poco più avanti il palazzo di Dario, è abbastanza intatto. È costruito con grandi blocchi di pietra difficilmente rimovibili. Lo possiamo fotografare solo da fuori, nell’interno ci sono lavori di restauro.

Il palazzo di Dario

            Tutte le colonne dei vari ingressi al palazzo, riportano le stesse figure, mostrano il re vincitore nella lotta con un leone, mentre sulla base marmorea del palazzo, è scolpita la parata dei diecimila immortali, la guardia imperiale del re.

Uno dei rilievi dei grandi portali

La base del palazzo di Dario

            La visita continua con il palazzo delle cento colonne (conosciuto anche come la Sala del Trono), e il palazzo di Serse.

 L'ingresso del palazzo di Serse

Il palazzo di Serse o delle cento colonne

            Vittorio sale sulla vicina collina per fotografare una delle tombe reali e per riprendere Persepoli dall’alto. Al suo ritorno alcuni ragazzi si fermano a parlare con noi ed anche per fare una fotografia insieme.



            Facciamo ancora un giro, il posto è suggestivo, ci sono tanti particolari da riprendere, facciamo ancora foto per essere sicuri di non aver dimenticato nulla
            Il sito si è riempito, rari i turisti stranieri, molti gli iraniani, d’altra parte siamo a pochi chilometri da Shiraz, una delle più grandi e belle città dell’Iran. In questa nazione, nei luoghi storico-culturali abbiamo sempre trovato una grande partecipazione delle scuole. Scolaresche di tutte le classi, dalle elementari ai vari licei visitano questi spazi insieme ai loro insegnanti.
            Lasciamo l’acropoli, ci dirigiamo verso i negozi di artigianato che questa mattina erano ancora chiusi. Veniamo avvicinati da un gruppo di simpatiche ragazze, sono curiose, quando diciamo che siamo italiani, vogliono sapere tutto di noi, di questi due personaggi che viaggiano da soli in terra persiana.

Tutte studentesse ... tranne una

            Anche questa volta lasciamo Persepoli con dispiacere, questo particolare luogo storico ha visto l’inizio di una nuova cultura, continuata con Alessandro Magno, la Grecia e la magna Grecia, per terminare con l’impero della Grande Roma.
                                                                                              Anna Maria Rosati